di Claudia Cernigoi
Un mio sogno ricorrente è quello di dover affrontare di nuovo l’esame di maturità, sogno che mi dà sempre una sensazione di angoscia perché mi rendo conto che, a distanza di tanti anni, ho ormai dimenticato buona parte delle cose che avevo studiato al liceo. Però, quando ho visto che tra le “tracce” dei temi per i maturandi di quest’anno c’era un titolo sulle “foibe”, ho pensato per un attimo che mi sarebbe piaciuto rifare la maturità in modo da scrivere su questo tema.
Poi mi sono messa nei panni di uno studente maturando nell’anno di grazia 2010 e mi sono detta: alt, non è una passeggiata. Intanto perché bisognerebbe capire quale preparazione hanno avuto gli studenti su questo argomento, su quali testi storici sono stati istruiti, o se piuttosto quello che sanno è solo quanto è stato diffuso come propaganda, se la loro conoscenza delle foibe deriva dal filmino “Il cuore nel pozzo”, dalle esternazioni dei gruppi neofascisti o neoirredentisti, dalle semplificazioni ideologiche (e non storiche) sulle quali si basano la maggior parte degli storici “accreditati”.
No, non sarebbe stato un tema facile da svolgere per un maturando. Però io, che ho al mio attivo una quindicina di anni dedicati allo studio delle “foibe”, ho pensato di sviluppare questa “traccia” nel modo seguente, che è la rielaborazione di un intervento che ho fatto al festival delle culture antifasciste di Bologna il 1° giugno scorso. Consapevole che uno svolgimento del genere non avrebbe probabilmente ottenuto il massimo dei voti dalla commissione esaminatrice, lo propongo qui.
Resistenza al confine orientale e questione “foibe”: ricerca storica o disinformazione strategica?
I fase: dopo l’ 8/9/43: ecco il conto!
Nella ricerca storica sulla questione delle “foibe” il primo periodo storico da esaminare è quello dell’immediato dopo 8 settembre 1943, quando, in seguito all’armistizio firmato con gli Alleati, i militari italiani furono abbandonati dai vertici dell’esercito e si trovarono allo sbando. In questo stato di vacanza del potere alcune zone dell’Istria passarono per breve tempo sotto il controllo delle formazioni partigiane; vi furono arresti di persone, in genere compromesse con il regime fascista, ed anche esecuzioni sommarie causate da vendette personali. Le vittime di questo periodo furono circa 300; i corpi di 200 di queste vittime furono riesumati da svariate “foibe”, ma su questi recuperi torneremo più avanti.
Consideriamo ora invece che per riprendere il controllo del territorio i nazifascisti causarono, tra fine settembre ed i primi di ottobre, migliaia di vittime nel territorio istriano: il fatto è che di questi morti non si parla mai, come se non esistessero, nonostante siano almeno dieci volte più numerosi degli “infoibati” nel periodo immediatamente precedente.
Da subito iniziò l’uso strumentale delle foibe per nascondere i crimini commessi dai nazifascisti: si misero in evidenza esclusivamente le violenze operate dai partigiani tacendo della feroce repressione nazifascista. Esempio di questa manovra è la pubblicazione di un libello dal titolo “Ecco il conto!”, pubblicato sia in lingua italiana che in lingua croata, contenente alcune foto di esumazioni di salme e basato fondamentalmente su slogan anticomunisti. Si volle in tal modo creare un clima di terrore nella popolazione allo scopo di isolare il movimento partigiano, che veniva descritto come feroce e pericoloso per tutti i civili, e che lo scopo del potere era proprio quello di difendere la popolazione dalle violenze dei partigiani.
Per comprendere come iniziò la propaganda nazifascista cito ora un’analisi di Paolo Parovel (1): < I servizi della X Mas assieme a quelli nazisti organizzarono la riesumazione propagandistica degli uccisi, con ampio uso di foto raccapriccianti dei cadaveri semidecomposti e dei riconoscimenti da parte dei parenti. Le prime pubblicazioni organiche di propaganda sulle foibe sono due: “Ecco il conto!” edita dal Comando tedesco già nel 1943, ed “Elenco degli Italiani Istriani trucidati dagli slavo-comunisti durante il periodo del predominio partigiano in Istria. Settembre-ottobre 1943” redatto nel 1944 per incarico del Comandante Junio Valerio Borghese, capo della X Mas e dell’on. Luigi Bilucaglia, Federale dei Fasci Repubblicani dell’Istria, da Maria Pasquinelli con l’ausilio di Luigi Papo ed altri ufficiali dei servizi della X Mas >.
Oltre a queste due pubblicazioni vanno citati come basilari per la creazione di questa propaganda anche gli articoli che comparivano sul “Piccolo” di Trieste e sul “Corriere istriano”. Nell’autunno del ‘43 il giornalista del “Piccolo” Manlio Granbassi (fratello di Mario, giornalista ma anche volontario fascista in Spagna caduto in sostegno dei golpisti di Franco), che firmava i propri articoli con la sigla P.C., si recò in Istria da dove relazionò sui recuperi dalle foibe effettuati dal maresciallo dei Vigili del Fuoco Arnaldo Harzarich per conto dei nazisti. Non avendo trovato documenti datati precedentemente agli articoli di Granbassi, supponiamo che sia stato lui il primo a descrivere con dovizia di particolari le presunte sevizie ed esecuzioni cui sarebbero stati sottoposti “sol perché italiani” coloro che furono poi riesumati dalle varie cavità istriane.
La propaganda sulle foibe, dovendosi basare su circostanze inesistenti, non considera logicamente la documentazione storica del periodo. Vi sono due documenti dell’epoca che possono servire ad inquadrare le vicende, sono ambedue noti agli storici da decenni, ma di essi anche recentemente gli storici continuano a non tenere conto.
Il primo documento è la cosiddetta relazione Cordovado, redatta dal dottor Marcello Cordovado, che si trovava a Pisino alla fine del 1943. Secondo un appunto (probabilmente del capitano Ercole Miani, membro del CLN triestino, che fu successivamente il fondatore della Deputazione di storia del movimento di liberazione di Trieste) l’autore redasse questa relazione su incarico dello stesso CLN, che a Trieste era di sentimenti anticomunisti e nazionalisti.
Lo scritto, intitolato “La dura sorte di Pisino”, consta di 7 pagine e descrive gli avvenimenti dal 10 settembre ai primi di ottobre del 1943. Ne leggiamo alcune parti che possono servire ad inquadrare la situazione.
Dopo avere descritto come i partigiani prendessero il controllo di Pisino senza colpo ferire, dato che i comandanti militari e dei carabinieri cedettero loro le armi alla prima richiesta, Cordovado fa queste descrizioni: “Il dominio partigiano si svolgeva senza eccessivi disordini, salvo qualche ammazzamento tra i partigiani stessi nelle frequenti liti durante le loro libazioni” (…) “Alcuni squadristi vennero uccisi ed altri vennero imprigionati nel castello Montecuccoli. Perquisizioni, arresti e minacce si susseguirono in questo periodo di ansia da parte della popolazione che assisteva e subiva impotente la situazione” (…) “Il Capo partigiano tuttavia si scusava di qualche eccesso e dell’uccisione di alcuni squadristi, biasimando il fatto ed attribuendolo ad elementi fanatici ed estremisti”.
Dopo questo periodo di relativa calma arrivarono i tedeschi. Il 4 ottobre verso le 11 del mattino 13 Stukas iniziarono il bombardamento a bassa quota con bombe di medio calibro “colpendo indistintamente tutto l’abitato”. La popolazione cercò scampo nelle campagne, ma “molti incappavano nel peggio”, perché i reparti tedeschi di rastrellamento “non badavano troppo per il sottile” e spesso mitragliavano ed uccidevano i fuggiaschi “che non sapevano spiegarsi in tedesco e giustificare la loro presenza fuori di casa” (come se questo fosse un motivo valido per venire falciati?), ed in tal modo vennero uccisi dai tedeschi anche il podestà ed il preside del ginnasio che stavano scappando verso nord.
Verso mezzogiorno cessò il bombardamento e nello stesso tempo si avvicinò la prima colonna corazzata germanica dal sud di Pisino, accolta da “nutrito fuoco di fucileria dalle prime case”. I carri armati aprirono il fuoco contro le case “che tosto andarono in fiamme e distrutte. Coloro che da dette case scappavano venivano indistintamente tutti mitragliati e stesi al suolo”, e furono uccisi “molti innocenti tra cui donne e bambini”. Proseguendo verso il centro di Pisino se da qualche casa proveniva una fucilata essa veniva “per pronta rappresaglia immediatamente incendiata”.
“Pisino presentava uno spettacolo pauroso: incendi in tutte le direzioni, in parte dovuti al bombardamento del mattino ed in parte al cannoneggiamento delle colonne (…) la popolazione era letteralmente atterrita dalle distruzioni compiute: l’ottanta per cento delle case era rimasto distrutto in poche ore”.
Le colonne tedesche fermarono gruppi di persone tra le case, sottoposti ad interrogatorio ed in parte fucilati, o portati al castello, dove “per una pura combinazione non successe una tragedia più grande”, in quanto alcuni reparti tedeschi vedendo il castello pieno di prigionieri italiani che erano stati lì abbandonati dai partigiani che avevano lasciato Pisino, li scambiarono per partigiani e puntarono loro contro le mitragliatrici pesanti. Solo per l’intervento di un capitano tedesco che riuscì a spiegare la situazione solo “il primo che si era presentato davanti” venne ucciso.
Da questo documento, che descrive chiaramente sia il comportamento dei partigiani, sia quello successivo dei nazifascisti, appare senza ombra di dubbio chi fu a mettere a ferro e fuoco l’Istria e provocare il martirio di quel popolo.
Andiamo ora a vedere un altro documento, redatto nell’estate del 1945, il cosiddetto “Rapporto Harzarich”, così chiamato dal nome del sottufficiale dei Vigili del Fuoco di Pola maresciallo Arnaldo Harzarich, che eseguì diversi recuperi da varie “foibe” istriane, dal 16 ottobre 1943 (immediatamente dopo che le truppe tedesche ebbero preso in mano il controllo di tutta l’Istria) fino alla primavera del ‘44. Lavorava sotto il diretto controllo dei nazisti e non era sicuramente sospettabile di simpatie “filoslave” o “filocomuniste”. Questo documento non è la relazione dei recuperi ma una “Relazione tratta dall’interrogatorio di un sottufficiale dei VV.FF. del 41° Corpo di stanza a Pola”, interrogatorio reso al “Centro J” dell’esercito angloamericano nel luglio 1945 (2) .
In esso Harzarich descrive i recuperi effettuati dalla sua squadra (circa 200 corpi), ma è degno di nota che per le identificazioni degli “infoibati” il maresciallo faccia riferimento, più che non a documentazione propria o ricordi personali, a quanto apparve all’epoca delle riesumazioni sia sulla stampa (cioè gli articoli di Granbassi, anche se spesso molti particolari riportati da Granbassi nei suoi articoli non corrispondono proprio a ciò che Harzarich dichiarò di propria mano), sia in “Ecco il conto!”.
È però fondamentale dire che dal racconto di Harzarich risulta chiaramente che i corpi, riesumati più di un mese dopo la morte furono trovati in stato di avanzata decomposizione, ed era quindi praticamente impossibile riscontrare su essi se le vittime fossero state soggette a torture o stupri mentre erano ancora in vita; così come certi particolari raccapriccianti che vengono riportati dalla “letteratura” delle foibe (ad esempio il sacerdote con il capo cinto da una corona di spine ed i genitali tagliati ed infilati in bocca) non hanno alcun riscontro nella relazione di Harzarich. Così come, a proposito di una delle “mitologie” che furono create intorno alle foibe, e cioè che gli “infoibatori” usassero gettare un cane nero sopra i corpi degli infoibati (gesto al quale sono stati dati negli anni i significati più vasti, dalla superstizione allo spregio, rasentando la magia nera), nei fatti Harzarich disse che in UNA foiba fu trovata la carogna di UN cane nero.
Un altro documento che dovrebbe servire a mettere fine alla querelle sul numero degli infoibati nel periodo in questione è una nota inviata al capitano Miani dal federale dell’Istria Bilucaglia, nell’aprile 1945, che accompagnava 500 pratiche relative a risarcimenti destinati a parenti di persone uccise dai partigiani dall’8/9/43 fino allora. È quindi una stessa fonte ufficiale fascista a dichiarare che, ad aprile 1945, gli “infoibati” in Istria non erano stati più di 500, comprendendo in questo numero anche gli uccisi per fatti di guerra nei 18 mesi successivi al breve periodo di potere popolare nella zona di Pisino.
Questa nota è stata pubblicata da Luigi Papo nel suo “E fu l’esilio” (Italo Svevo 1998), lo stesso che dichiarò al PM Pititto che indagava sulle “foibe” istriane che all’epoca “si trattò di vero e proprio genocidio (…) gli italiani, per il solo fatto di essere italiani venivano prelevati a centinaia e portati quasi tutti nel castello di Pisino (…) ne vennero ammazzati circa 400” (3).
Proseguendo con la creazione delle false notizie sulle foibe, è sempre Papo a dirci che fu Maria Pasquinelli (4) a portare “in salvo” da Pola sul finire della guerra “per incarico del Centro Studi Storici di Venezia ” (5) assieme ad altri documenti, anche “copia di tutta la documentazione sulle foibe”. Giunta a Milano il 26 aprile 1945, in Piazzale Fiume (dove aveva sede l’Ufficio Stampa della X Mas), prese contatto con Bruno Spampinato, l’ufficiale della Decima che aveva ricevuto l’incarico dal comandante Borghese, e gli consegnò tutto il materiale, parte del quale era già stata utilizzato per la stesura di svariati articoli e che successivamente fu diffuso dagli uffici stampa della Decima. Fu così che iniziò quell’operazione propagandistica che dura da sessant’anni ed i cui effetti arrivano fino al giorno d’oggi e sono ben evidenti ai nostri occhi: le foto sono le stesse che vengono pubblicate in ogni occasione in cui si parla di foibe, indipendentemente dalla zona o dal periodo storico di cui si parla, amplificando in questo modo anche il numero reale dei morti. Nel dopoguerra i servizi segreti che avevano fatto riferimento alla Decima collaborarono anche con i servizi segreti degli Alleati in funzione anticomunista ed una delle loro attività fu appunto continuare a propagare la “mitologia” dei “migliaia di infoibati dai titini”.
II fase: dopo il maggio 1945: le foibe come “contraltare” ai crimini di guerra italiani.
La propaganda sugli infoibamenti e sui crimini che sarebbero stati commessi dai liberatori ricominciò dopo la fine della guerra. In tutta Italia (come del resto negli altri paesi d’Europa che furono occupati dai nazifascisti) si verificarono delle rese dei conti contro chi aveva collaborato con il nemico invasore, però (pur in presenza di operazioni come la corposa produzione letteraria sui “crimini dei liberatori”, della quale Giampaolo Pansa è uno dei capiscuola) la propaganda oggi sembra concentrarsi per la maggior parte sugli avvenimenti del confine orientale.
A Trieste, nonostante la vulgata generalizzata, le esecuzioni sommarie furono molto limitate, proprio perché la dirigenza jugoslava che aveva sotto controllo la città vigilava in modo che non si svolgessero abusi. Ricordiamo qui quanto scrisse lo storico triestino Mario Pacor a proposito del “malcontento operaio” nel maggio del ‘45, quando Trieste era sotto amministrazione partigiana jugoslava:
“Fu così che agli operai insorti non fu permesso di procedere a quelle liquidazioni di fascisti responsabili di persecuzioni e violenze, a quegli atti di “giustizia sommaria” che invece si ebbero a migliaia a Milano, Torino, in Emilia e in tutta l’Alta Italia nelle giornate della liberazione e poi ancora per più giorni. “Non ce lo permettono” mi dissero ancora alcuni operai “pretendono che arrestiamo e denunciamo regolarmente codesti fascisti, ma spesso, dopo che li abbiamo arrestati e denunciati, essi li liberano, non procedono. E allora?” ne erano indignati… > (6).
In questo senso scrisse anche, nel lontano 1948, il quotidiano “Trieste Sera”: < a Trieste non avvenne come nell’Italia settentrionale. Niente morti ai margini delle strade, niente uccisioni sulla soglia di casa. Gli arresti o “prelevamenti” avvenivano sulla base di precedenti segnalazioni. La maggior parte degli arrestati ritornavano a casa dopo alcuni giorni di indagini e molti subito. Sarebbe interessante invitare tutti gli arrestati durante i primi giorni di occupazione della città che hanno ripreso immediatamente la loro vita civile e sarebbe interessante vedere quanti di essi erano compromessi col fascismo e col nazismo per giudicare le autorità popolari d’allora. Circa 2.500 persone vennero arrestate e trattenute, 2.500 su 250.000, dunque l’uno per cento. Molte di queste ritornarono durante questi due anni e mezzo, ma del loro numero nessuno si occupò di tener conto. Oggi tutti, anche i ritornati, vengono sempre fatti figurare come scomparsi > (7) .
Nella “fabbrica” della propaganda sulle foibe un ruolo preminente lo ebbe il CLN triestino, quello che si era staccato dal CLN Alta Italia perché non voleva conformarsi alle direttive nazionali di collaborare con il Fronte di Liberazione-Osvobodilna Fronta di Trieste, che aveva contatti con l’esercito di liberazione jugoslavo. Già da maggio 1945 il CLN di Trieste iniziò a fornire notizie false ai comandi alleati per creare un “allarme” sulla questione degli infoibamenti, dando false notizie su presunti infoibamenti a Basovizza di 400 o addirittura 600 persone gettate dagli jugoslavi nel pozzo della miniera (quello che oggi è diventato il monumento nazionale). Nonostante queste bufale venissero di volta in volta smentite dalle autorità, nonostante lo stesso capitano Miani avesse dichiarato allo studioso triestino Diego de Henriquez che “le persone scomparse durante l’occupazione di 40 giorni jugoslavi erano circa cinquecento e non migliaia come egli (cioè Miani, ndr) usa dire nelle sue azioni di propaganda contro gli slavo-comunisti” (8), ancora oggi si continua a fare confusione e mistificazione sul reale numero degli “scomparsi” nel maggio 1945 a Trieste.
Nello stesso tempo, a livello internazionale si creò un altro tipo di problema, riguardante la punizione dei criminali di guerra italiani richiesti dalla Jugoslavia, problema che fu sollevato dagli storici Filippo Focardi e Lutz Klinkhammer (9) nel 2001:
< Come dimostra un importante documento dell’agosto 1949 (doc. 19 Segr. Pol. 875, inviato il 20/8/49, firmato Zoppi, inviato A S.E. l’Ammiraglio Franco ZANNONI, Capo Gabinetto Ministero Difesa ROMA), nessuno dei pur pochi indagati considerati dalla Commissione d’inchiesta deferibili alla giustizia fu mai giudicato. Nei confronti di alcuni fu spiccato un mandato di cattura da parte della magistratura italiana, ma venne dato a tutti il tempo di mettersi al riparo. Qualcuno lo fece rifugiandosi all’estero. La tattica dilatoria delle autorità italiane ebbe quindi pieno successo. Ciò anche in ragione dei mutamenti internazionali avvenuti nel 1948. La rottura fra Jugoslavia ed URSS del giugno 1948 privò, infatti, Belgrado dell’appoggio dell’unica delle quattro grandi potenze dimostratasi fino ad allora disposta a sostenerne le rivendicazioni >.
A questo punto va inserito un intervento del procuratore militare di Roma Antonino Intelisano, < “alla fine degli anni Quaranta fu aperto presso questo ufficio un procedimento nei confronti di 33 persone accusate di concorso in uso di mezzi di guerra vietati e concorso in rappresaglie ordinate fuori dai casi consentiti dalla legge. Il procedimento si concluse il 30 luglio 1951 con una sentenza del giudice istruttore militare. Questi stabilì che non si doveva procedere nei confronti di tutti gli imputati, perché non esistevano le condizioni per rispettare il principio di reciprocità fissato dall’articolo 165 del Codice penale militare di guerra”. Secondo tale norma, un militare che aveva commesso reati in territori occupati poteva essere processato a patto che si garantisse un eguale trattamento verso i responsabili di reati commessi in quella nazione ai danni di italiani. Vale a dire, per esempio: noi processiamo i nostri militari colpevoli, voi jugoslavi condannate i responsabili delle uccisioni nelle foibe. L’articolo 165, continua Intelisano, è stato riformato, con l’abolizione della clausola di reciprocità, nel 2002 > (10).
Lo studioso triestino Fabio Mosca ha tratto queste conclusioni: il “nuovo” esercito italiano ricostituito al Sud, “formato da ufficiali già impegnati nella guerra fascista, minacciati di essere processati dai paesi aggrediti che ne chiedevano l’estradizione” si unì ai “politici della ‘nuova Italia’ in un coro nel gridare alle foibe”; cioè avrebbero “visto nelle foibe una buona occasione per occultare le sue colpe”. In questo contesto “la foiba di Basovizza, unica in zona accessibile, assurse a grande valore nella campagna per delegittimare la nuova Jugoslavia nelle sue richieste di estradizioni. Gli anglo americani acconsentirono alla manovra conservando il segreto sulla realtà del ricupero di ‘soli” 10 corpi in divisa di tedeschi dalla suddetta foiba. Nel 1948 la Jugoslavia non contò più sul suo alleato sovietico e smise di richiedere le estradizioni. I criminali non vennero mai consegnati né processati e cessò per decenni la campagna sulle foibe. Dalla morte di Tito in poi, le foibe vennero nuovamente riproposte per preparare l’opinione pubblica per l’eventuale blitz per il recupero dei territori perduti nel ‘45” (11).
La situazione rimase poi statica fino all’inizio degli anni ’90: la destra continuava ad usare la questione delle foibe in senso anticomunista, antijugoslavo ed irredentista, mentre la sinistra preferiva ignorare il problema. Unica voce fuori dal coro il professor Giovanni Miccoli dell’Università di Trieste che nel 1976, all’epoca del processo per i crimini della Risiera di San Sabba (campo di concentramento e di sterminio nazista a Trieste), di fronte alla richiesta di settori della destra estrema (tra i quali l’ex esponente triestino di Ordine nuovo, Ugo Fabbri, supportato dalla rivista “Il Borghese”) di procedere anche contro gli “infoibatori”, definì “accostamento aberrante” quello che si voleva fare tra foibe e Risiera, in quanto i crimini della Risiera furono il prodotto di una violenza di stato, organizzata a tavolino, con fini ben determinati, mentre ciò non si poteva dire per le vittime delle foibe (all’epoca, ricordiamo, la terminologia “foibe” non aveva ancora assunto quella caratteristica di generalizzazione che vedremo più avanti).
Le richieste della destra non tenevano inoltre conto delle decine di processi celebrati dal GMA tra il 1946 ed il 1949 contro membri della Resistenza accusati di essersi fatta giustizia da sé, spesso condannati a pene piuttosto severe.
Possiamo fissare come punto fermo della storiografia nel 1990 lo studio di Roberto Spazzali “Foibe. Un dibattito ancora aperto” (edito a cura della Lega Nazionale di Trieste), dove lo storico raccoglie quasi tutto ciò che era stato pubblicato e detto sulle foibe fino a quel momento.
III fase, anni ’90, grandi manovre.
All’inizio degli anni ‘90, dopo il crollo del muro di Berlino e l’asserita “fine del comunismo”, con il contemporaneo sfascio della Jugoslavia, anche la pubblicistica sulle foibe ha conquistato nuova linfa.
Fondamentale in questa operazione il ruolo del pordenonese Marco Pirina, che negli anni ‘60 e ‘70 era stato un attivista di estrema destra (quale rappresentante del Fronte Delta fu coinvolto nelle indagini sul tentato golpe Borghese, e poi prosciolto), che iniziò una serie di pubblicazioni sulle vicende del confine orientale, finalizzate a dimostrare la “barbarie” dei partigiani, la violenza dei “vincitori”, ma usando a questo scopo metodi poco ortodossi, come il moltiplicare la quantità di “infoibati” inserendo negli elenchi delle “vittime dei titini” anche moltissimi nominativi di persone che non erano state uccise dai partigiani.
Verso metà degli anni Novanta, all’opera di falsificazione storica di Pirina si aggiunsero le dichiarazioni politiche di personalità della sinistra, come il segretario del PDS triestino Stelio Spadaro, il quale iniziò a dire che era giunta l’ora che anche a sinistra si riconoscessero i crimini delle foibe; ed anche le prese di posizione dell’onorevole Luciano Violante, che si attivò a favore del riconoscimento dei “ragazzi di Salò” e promosse assieme a Gianfranco Fini un convegno (svoltosi non si sa se casualmente o per scelta proprio a Trieste nel 1998), il cui scopo era di giungere ad una “pacificazione”, che in pratica significava nient’altro che la riabilitazione e legittimazione del fascismo e dei combattenti della Repubblica Sociale Italiana.
Nello stesso periodo il PM romano Giuseppe Pititto iniziò un’indagine sulle “foibe”, che prese l’avvio da un paio di denunce presentate da figli di “infoibati” che erano supportati, dal punto di vista legale, dall’avvocato Augusto Sinagra, piduista ed irredentista, che nel corso dei convegni cui partecipava usava dire che lo scopo di quel processo era di restituire in sede legale agli esuli ciò che era stato loro tolto in sede storica.
Questa istruttoria, presentata sulla stampa come risolutiva della vicenda “foibe” si concluse alla fine con un nulla di fatto: le richieste di rinvio a giudizio erano relative ad un decina di vittime a Pisino nel 1943 e tre a Fiume nel 1945, e la sentenza finale sancì che l’Italia non aveva giurisdizione sul territorio dove si erano svolti i fatti.
Di fronte a questa offensiva di criminalizzazione della Resistenza al confine orientale si costituì un gruppo di lavoro sia per organizzare la difesa degli imputati nel processo iniziato da Pititto, sia per rispondere in maniera storica alle mistificazioni che venivano diffuse dagli organi di stampa. Un primo prodotto di questa attività fu il mio breve studio (“Operazione foibe a Trieste”) pubblicato nel 1997, che nel mare magnum di pubblicazioni sull’argomento era uno dei pochi che inquadrava la cosiddetta “questione delle foibe” da un punto di vista storico e non agiografico o politico.
In esso, oltre a contestualizzare i fatti nell’epoca in cui si svolsero, inserii un elenco di nominativi di presunti “infoibati” (tratto dal “Genocidio…” di Pirina, pubblicato nel 1995) analizzati uno ad uno e dal quale risultava che il 64 % dei nominativi dati per “infoibati” da Pirina non c’entravano nulla: o si trattava di trascrizioni errate per cui i nominativi erano duplicati, oppure erano nomi di persone arrestate ma poi rilasciate, o rimpatriate dalla prigionia, di morti nel corso del conflitto, di uccisi per regolamenti di conti anche molti anni dopo la fine della guerra, o addirittura (la mistificazione suprema) si trattava di partigiani uccisi dai nazifascisti.
Questo studio, essendo basato su documenti (alcuni dei quali inediti) era quindi inoppugnabile da un punto di vista storiografico, e suscitò (com’era da aspettarsi) reazioni negative da parte di coloro che avevano da sempre usato a scopo politico la questione delle foibe, ingigantendo il numero delle vittime
Le risposte non mancarono, da Pirina che pubblicò un pamphlet dal significativo titolo “Ecco il conto!”, che non a caso riprende in copertina il titolo, la grafica ed una delle foto che apparivano nell’omonimo libello edito dai nazisti nell’inverno del ‘43 sulle foibe istriane, al ponderoso volume di Giorgio Rustia che oggi viene propagandato sul sito dell’ANVGD (12) come “la risposta completa e dettagliata a tutte le teorie negazioniste di sedicenti storici e trinariciuti divulgatori che imperversano su internet, nelle librerie, ai convegni e nelle scuole”. Nessuna di queste “risposte” è stata in grado di confutare i risultati delle ricerche pubblicate in “Operazione foibe a Trieste”, né tantomeno nella successiva edizione del 2005 (“Operazione foibe tra storia e mito”), ma in riferimento al termine “teorie negazioniste” cui accenna l’ANVGD bisogna spiegare che nel corso degli anni si è costituito un gruppo di ricercatori storici (Resistenza storica) che sulla base di nuova documentazione trovata in archivi non solo italiani, ha prodotto svariati studi sull’argomento. Queste ricerche sono state sbrigativamente definite “negazioniste” in quanto non concordano con quanto è stato finora sostenuto in maniera del tutto propagandistica, proprio dalle stesse persone ed associazioni che non si fanno scrupolo di affermare il falso pur di mantenere viva la “mitologia” delle foibe.
Se queste reazioni da parte della destra non stupiscono, la cosa che dà da pensare, invece, è che gli storici accreditati in materia (Pupo e Spazzali) bollarono “Operazione foibe a Trieste” come “tesi militanti” (13), negandogli dunque una qualsivoglia dignità di testo storico (quanto alla successiva edizione, “Operazione foibe tra storia e mito”, spesso non viene neppure citata nelle bibliografie sull’argomento). Questi sono gli stessi storici che hanno iniziato la pubblicazione di alcuni testi la cui intenzione sembra essere quella di analizzare il “fenomeno delle foibe” in senso politico e non storiografico, in quanto ritengono che non sia più necessaria la ricerca storica sull’argomento. Pertanto questi testi non tengono conto tanto di documenti (inediti o già noti) ma si basano piuttosto su quanto già pubblicato precedentemente da altri studiosi.
Inoltre, nel citato “Foibe” del 2003 Pupo e Spazzali diedero una svolta notevole nella storiografia in materia:
< Quando si parla di “foibe” ci si riferisce alle violenze di massa a danno di militari e civili, in larga prevalenza italiani, scatenatesi nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945 in diverse aree della Venezia Giulia e che nel loro insieme procurarono alcune migliaia di vittime. È questo un uso del termine consolidatosi ormai, oltre che nel linguaggio comune, anche in quello storiografico, e che quindi va accolto, purché si tenga conto del suo significato simbolico e non letterale >.
Gravissima affermazione, dato che solo una minima parte di coloro che morirono per mano partigiana durante e dopo la guerra furono effettivamente uccisi nelle foibe, mentre la maggior parte di coloro che persero la vita nel dopoguerra morirono nei campi di prigionia o dopo condanna a morte. Ma accettare a livello storicistico una tale definizione, che nell’immaginario collettivo ha sempre richiamato l’immagine di una morte terribile, significa soltanto voler perpetuare una generalizzazione mistificante che non fa certo un buon servizio alla realtà storica.
Punto finale, 2010: “colpire la memoria, riscrivere la storia”.
“Operazione foibe a Trieste” si apriva con la citazione di alcuni versi della canzone “Ruggine” degli Africa Unite: “colpire la memoria, riscrivere la storia”, parole che a distanza di 13 anni appaiono quanto mai appropriate. Nel 2004 fu approvata la legge per l’istituzione del Giorno del ricordo “della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale” (14), da celebrare il 10 febbraio, cioè nell’anniversario della firma del Trattato di pace del 1947. La legge prevede dunque che in tale giornata si approfondisca la conoscenza dei fatti del confine orientale, il che significa parlare non solo delle foibe e dell’esodo, ma anche dei crimini di guerra italiani e più genericamente del fascismo e dell’antifascismo nelle nostre terre. Dal 2005, quindi, si sono moltiplicate le iniziative sull’argomento, non solo quelle meramente celebrative, organizzate dalle associazioni degli esuli (principalmente l’ANVGD), che ripropongono le vecchie teorie propagandistiche delle “migliaia di infoibati solo perché italiani”; ma anche iniziative che vedono la partecipazione di storici seri, tra i quali anche i rappresentanti di Resistenza storica.
Contro questi ultimi si è scatenata un’offensiva feroce che, partendo dal presupposto che tutto quanto era stato detto “prima” sulle foibe è verità conclamata, tutti coloro che (pur portando a dimostrazione di quanto scrivono fior di documenti) non vi si conformano, diventano automaticamente “negazionisti”, ai quali dovrebbe essere, secondo le posizioni di Lega nazionale, Unione degli Istriani e ANVGD (supportati da alcuni esponenti politici) impedito di parlare, e magari in un futuro comminata la galera se insistono a voler esprimere le loro posizioni.
È interessante che il presidente dell’Unione degli istriani, Massimiliano Lacota, che vorrebbe venisse emanata una legge a questo scopo, abbia anche preso le distanze da coloro che non conoscendo i fatti storici tendono ad ingigantire il fenomeno foibe, esagerando la quantità delle vittime, ed ha invece considerato quali storici seri Pupo e Spazzali, che in effetti negli ultimi mesi sembrano avere monopolizzato la gestione storiografica sulle vicende del confine orientale alla fine del secondo conflitto mondiale.
È necessario a questo punto fare un’analisi della storiografia secondo Pupo e Spazzali, come l’abbiamo sentita esprimere nel corso di una conferenza tenutasi a Gorizia il 23 maggio scorso.
Come accennato sopra, nel corso degli ultimi quindici anni, soprattutto da parte di giovani ricercatori di buona volontà, spesso del tutto ignorati da altri storici “accademici” (tra i quali gli italiani Valdevit, Spazzali, Pupo e la slovena Troha) sono emersi documenti interessantissimi sull’argomento “foibe”, tra essi il carteggio di fonte alleata rinvenuto dal ricercatore triestino Gorazd Bajc negli archivi di Washington, che chiarisce cosa effettivamente NON ci sia nella foiba di Basovizza. Citiamo soltanto il documento del febbraio 1946 nel quale i vertici militari angloamericani ordinano di sospendere le ricerche a Basovizza con la raccomandazione però di dire che lo si fa per problemi tecnici e non perché oltre alla decina di corpi esumati sei mesi prima non c’è più nulla da recuperare, dato che non si può smentire quanto asserito dal CLN (15).
Del resto Pupo sostiene che nel corso degli ultimi anni non sono emersi nuovi documenti sulle foibe (in effetti nelle sue opere e nei suoi interventi egli non solo non considera nulla di quanto altri ricercatori hanno rinvenuto negli ultimi anni, ma non tiene conto neppure di documenti vecchi, ad esempio la relazione Cordovado che abbiamo visto prima), tutto quello che c’era da trovare è stato trovato e, pur senza avere ancora preso visione degli archivi di Belgrado afferma già con sicurezza che non ci sono neppure lì documenti importanti. La sua conclusione è quindi che i fatti storici sono assodati ed ormai sulla questione delle foibe non c’è altro da sapere (un’inedita sintonia con le posizioni espresse da Fausto Bertinotti nel famoso convegno di Venezia del 2004) e l’unica cosa da fare oggi, su questi argomenti, sono valutazioni ed interpretazioni di tipo politico anziché storico.
Sostanzialmente in tal modo viene lasciato ai propagandisti come Pirina di entrare nel merito concreto della questione (cioè il numero dei cosiddetti “infoibati”), senza valutare se quanto detto corrisponda a verità; e considerando che Pupo ha fatto anche un breve cenno alla questione dei “negazionisti”, da lui definito come fenomeno marginale al quale è stato dato anche troppo risalto, ciò che viene da pensare è che Pupo ritenga valide le cifre di Pirina, visto che considera “negazionisti” coloro che lo hanno smentito.
Nell’ambito della valutazione di questi fenomeni storici da un punto di vista politico, vediamo poi anche che la vicenda non solo non viene inquadrata nell’ambito di quella che fu la sistemazione degli equilibri internazionali alla fine della seconda guerra mondiale, ma che si è addirittura giunti alla creazione di un “non-fenomeno”, utilizzando il metodo di Pupo e Spazzali di considerare l’accezione più ampia del termine “foibe” nel “suo significato simbolico e non letterale”. Se consideriamo i milioni di morti della seconda guerra mondiale, il numero di vittime “delle foibe” (circa trecento nel settembre 1943), risulta talmente minimale da non poter essere preso in considerazione come “fenomeno” a sé stante, a meno che non si decida di accomunare in senso “simbolico” le vittime della jacquerie del settembre ’43 in Istria, le vittime di regolamenti di conti e vendette personali, i militari morti di tifo nei campi di internamento, i condannati a morte per crimini di guerra alla fine del 1945. Solo con questa “generalizzazione” si riesce a raggiungere un numero di vittime (attribuibili genericamente agli “jugoslavi”) tale da poter essere considerato rappresentativo di un fenomeno (“alcune migliaia”, scrivono Pupo e Spazzali), che viene letto come pianificazione operata dal nascente Stato jugoslavo per l’eliminazione di chi avrebbe potuto costituire un pericolo per l’instaurazione del nuovo “regime”.
In realtà, come abbiamo evidenziato in precedenza, la Jugoslavia non aveva in alcun modo “pianificato” le uccisioni di chi poteva essere considerato un “nemico”; così i militari prigionieri nei campi di internamento, morti per malattia, non furono uccisi scientemente perché “pericolosi” per la costruzione della nuova Jugoslavia, né si può attribuire alle autorità jugoslave la responsabilità degli uccisi per vendette personali o regolamento di conti. E nel contempo diventa necessario, per perpetuare questa teoria politica, considerare con sufficienza, se non con disprezzo, gli storici che insistono nel voler fare la “contabilità dei morti”, cioè distinguere le modalità delle uccisioni e le qualifiche delle vittime.
Così assistiamo a manipolazioni storiografiche di non poco conto: quando Pupo afferma che le autorità jugoslave a Trieste arrestarono tutti coloro che non vollero mettersi a loro disposizione (ciò accadde ad un reparto di guardie di finanza e parte del CVL locale), “dimentica” che la Jugoslavia era un paese alleato del blocco antinazifascista (l’Italia era solo cobelligerante) e che gli accordi armistiziali prevedevano che quando un esercito alleato arrivava in un territorio già occupato dai nazifascisti, tutti gli elementi armati dovevano porsi a disposizione degli alleati, consegnando loro le armi. Questo valeva nei confronti degli angloamericani come nei confronti degli jugoslavi, quindi a Trieste chi non accettava di consegnare le armi agli jugoslavi veniva considerato come nemico con le conseguenze del caso. Accettare questo dato di fatto non significa prendere le parti dell’una o dell’altra fazione, come sostiene Pupo, è invece vero il contrario, quando si interpretano gli eventi storici in modo fazioso per portare acqua al mulino delle proprie tesi; tesi che, nel caso di Pupo, è che tutti gli uccisi dagli jugoslavi, dai militari prigionieri di guerra ai collaborazionisti italiani, sloveni e croati, alle vittime di vendette personali, tutti costoro, secondo Pupo, sarebbero stati uccisi per permettere la costruzione della “nuova Jugoslavia”.
Ma questa interpretazione storica sui generis porta infine alla seguente valutazione politica: coloro che collaborarono con la resistenza jugoslava (il Partito comunista, il Fronte di Liberazione-Osvobodilna Fronta ed Unità operaia-Delavska Enotnost a Trieste) non vengono considerati come combattenti antifascisti per la libertà, ma come sostenitori di un “regime” nato dalla violenza, e di conseguenza esecrabili. In questo contesto è anche fondamentale operare un’altra mistificazione, e cioè affermare che il Partito comunista triestino era uscito dal CLN di Trieste perché preferiva collaborare con il Fronte di Liberazione collegato con la resistenza jugoslava. In realtà le cose andarono diversamente: quando il CLN di Trieste prese contatto con la dirigenza del CLN Alta Italia le direttive di quest’ultimo furono che nella Venezia Giulia era necessario collaborare con la resistenza jugoslava, come già faceva il Partito comunista. I dirigenti del CLN triestino, però, nazionalisti ed anticomunisti, si opposero e preferirono rompere il collegamento col CLNAI, che a quel punto rimase in contatto col solo Partito comunista. Quindi non fu il PC ad uscire dal CLN ma il CLN a staccarsi dal CLNAI, e se storici come Pupo ribaltano la storia in questo modo, il sospetto è che lo facciano per uno scopo meramente politico, cioè dipingere la resistenza di sinistra (che fu l’unica vera resistenza armata nella Venezia Giulia) come “asservita” al movimento di liberazione jugoslavo, e quindi colpevole e complice, quantomeno da un punto di vista “morale”, delle “foibe”, che secondo queste interpretazioni più politiche che storiche, avrebbero avuto lo scopo politico dell’eliminazione di chi si opponeva alla politica jugoslava, alla presenza jugoslava a Trieste, alla costruzione della Jugoslavia.
In tale modo la resistenza di sinistra non può che apparire al lettore in modo negativo, e va da sé, a questo punto, che l’unica resistenza accettabile diventa giocoforza quella nazionalista, cattolica, anticomunista, quella che secondo una definizione di Pupo avrebbe combinato assieme “antifascismo e rivendicazione risorgimentale di italianità”; resistenza che, però, si era costituita concretamente soltanto all’inizio del 1945, quando i nuovi dirigenti, subentrati a coloro che erano stati arrestati dai nazifascisti nella terza operazione condotta dai nazifascisti contro i vertici del CLN (dietrologicamente a posteriori si potrebbe anche pensare che tali arresti, causati da un delatore che denunciò i membri di una missione del Regno del Sud, il comandante della quale collaborò con i nazisti in funzione antijugoslava, siano stati molto opportuni per la successiva politica del CLN triestino), avendo valutato la possibilità che l’esercito jugoslavo giungesse a Trieste prima degli angloamericani, decisero di organizzarsi per il passaggio di potere e costituirono le brigate del CVL (raccogliendo personale dalle forze armate collaborazioniste, PS, Guardia di finanza e Guardia civica ed anche singoli provenienti dalla Decima Mas) il cui scopo (dichiarato a posteriori da esponenti del CVL) era non tanto quello di combattere i nazisti che comunque stavano abbandonando Trieste, quanto il far apparire sia all’Esercito jugoslavo che entrava in città, sia agli Angloamericani che sarebbero arrivati alcuni giorni dopo, che a Trieste esisteva anche una “resistenza patriottica” oltre a quella comunista ed internazionalista che aveva operato durante l’occupazione germanica.
Ricordiamo che uno dei nuovi dirigenti del CLN era il poeta Biagio Marin, che fino ad un paio di anni prima non era stato solo un gerarca fascista, ma anche un convinto assertore della positività della politica hitleriana. Quale opinione potevano avere di un CLN rappresentato da persone come questa i combattenti del Fronte di liberazione e del Partito comunista?
Inoltre la Brigata Venezia Giulia del CVL (che raccoglieva diversi transfughi sia dalla Decima Mas che dalla polizia politica fascista) operò nei “40 giorni” di amministrazione jugoslava non solo con azioni di propaganda, ma anche con attentati dinamitardi, ed arrivò addirittura a rapire un paio di membri del Comitato esecutivo antifascista triestino (il governo provvisorio della città, composto da membri sloveni ed italiani). Fu perché questo settore del CVL operò in maniera terroristica che una decina di membri di esso fu arrestata dalle autorità verso la fine di maggio 1945, e non perché (come sostiene Pupo) fossero contrari in senso generico alla politica jugoslava.
Tra gli attivisti di questa “resistenza” troviamo il triestino Fabio Forti, oggi rappresentante dell’AVL-Associazione Volontari della Libertà, nonché promotore, assieme a Stelio Spadaro ed allo storico Patrick Karlsen, di un progetto editoriale di pubblicazione di testi che riscrivono la storia della resistenza “patriottica” a Trieste. Forti ha più volte asserito che il loro CLN è stato l’unico in Italia che rimase in clandestinità fino al 1954 (quando Trieste fu definitivamente affidata all’amministrazione italiana), aggiungendo anche che “nel nostro spirito siamo ancora in clandestinità”.
Consideriamo che da questa “resistenza” derivarono, nel dopoguerra, quelle organizzazioni armate, clandestine, che operarono nella Venezia Giulia, nel Friuli e nelle Valli del Natisone (tricoloristi, organizzazione “O”, Gladio, squadre di Cavana e del Viale a Trieste), causando anche diverse vittime; e ricordiamo anche come operarono in funzione anticomunista (non si poteva permettere che il Partito comunista andasse al governo in Italia) tanti ex rappresentanti di questa “resistenza patriottica” (Fumagalli con il suo MAR, Edgardo Sogno con il suo tentativo di golpe) e le connessioni ancora non del tutto chiarite tra esponenti dei servizi, ex partigiani bianchi e neofascisti, che emergono dalle indagini sulle stragi di piazza Fontana e di Brescia, fatti che ancora oggi pesano sulla storia dell’Italia democratica.
Eppure è proprio questa la “resistenza” che emerge come positiva dalle riletture storiche di accademici come Pupo, a scapito della resistenza “rossa”, che viene descritta come antidemocratica, responsabile di esecuzioni sommarie; riletture dove la criminalizzazione della resistenza comunista va di pari passo con la riabilitazione dei fascisti, dei “ragazzi di Salò” ai quali Luciano Violante aveva già teso una mano a metà degli anni ’90. Perché troppo spesso abbiamo sentito dire che in fin dei conti se i fascisti hanno commesso dei crimini lo fecero per amore di patria, e che invece i comunisti commisero dei crimini per motivi ideologici, e quindi ambedue le parti hanno le loro responsabilità negative, dal che sorge l’elogio della “zona grigia”, quella che nella migliore delle ipotesi si costituì in “resistenza democratica”, limitandosi ad aspettare che gli angloamericani arrivassero a liberare l’Italia. E non abbiamo forse sentito dire anche da esponenti della sinistra (ad esempio Fausto Bertinotti, segretario di Rifondazione comunista, nel 2004) che non fu giusto armarsi e ricorrere alla violenza, come se fosse più eticamente corretto lasciare che siano altri a sporcarsi le mani di sangue, ma tant’è.
Questa la storia d’Italia che si vuole riscrivere a distanza di sessant’anni, a fini meramente politici, e logicamente per raggiungere questo scopo è necessario mettere a tacere ogni voce che non si adegua, dal punto di vista storiografico, a questo “nuovo corso”.
Forse è per questo che oggi ci troviamo, noi rappresentanti di “Resistenza storica” ad essere criminalizzati da propagandisti di quella destra nazionalista e neoirredentista, così come snobbati o addirittura tacciati di ideologismo da storici che invece sono i primi ad usare la storia per dimostrare le loro teorie politiche. Perché, si badi bene, siamo gli unici che ricercano documenti originali e li analizzano per poi trarne delle conclusioni di tipo storico, mentre gli uni e gli altri che ci tacciano di “negazionisti” non solo non scrivono di storia, limitandosi a produrre analisi politiche, ma non considerano minimamente la documentazione esistente che potrebbe minare le loro certezze affermazioniste, quella sorta di “miti” che servono a perpetuare la propaganda anticomunista e nazionalista sulle foibe, quella propaganda iniziata dai nazisti nel 1943 e che ancora oggi, nonostante sia stata smentita più e più volte, non sembra avere la possibilità di un riscontro neppure a livello di storici accademici come Pupo, Spazzali ed altri.
Infine una breve considerazione personale: quando, ormai molti anni fa, avevo iniziato a studiare queste cose, la reazione che avevo riscontrato da parte della mia componente politica di riferimento, la sinistra cosiddetta “radicale”, era stata di sufficienza se non di fastidio, come se fosse una perdita di tempo occuparsi di fatti di cinquant’anni prima. Oggi, quando dovrebbe essere chiaro che speculare su fatti di sessant’anni fa, riscrivendo la storia non solo d’Italia ma di tutta Europa, ha lo scopo di negare ogni dignità politica ai partiti comunisti in modo da eliminare completamente ogni forma di opposizione al neoliberismo capitalista ed imperialista, non posso fare a meno di considerare che se la sinistra fosse stata meno miope tempo addietro, forse oggi non ci troveremmo in questa situazione.
NOTE:
1) Paolo Parovel, “Analisi sulla questione delle foibe”, inviata al Ministero degli Interni.
2) Archivio IRSMLT, n. 346.
3) Istruttoria 904/97 RRG.
4) Luigi Papo, “L’ultima bandiera. Storia del reggimento Istria”, supplemento a “L’Arena di Pola”, 1986.
5) Il Centro, presieduto da Libero Sauro, fu rifondato a Roma nel 1947.
6) Documento conservato presso l’Archivio dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione di Trieste, XXX 2227.
7) “Trieste Sera”, 4/2/48, articolo siglato “B.C.”.
8) Nei “Diari” di Diego de Henriquez, conservati presso i Civici musei di Trieste, pag. 12.512.
9) “La questione dei ‘criminali di guerra’ italiani e una Commissione di inchiesta dimenticata”, in “Contemporanea”, a. IV, n.3, luglio 2001, pp. 497-528.
10) Intervista a cura di Dino Messina in http://lanostrastoria.corriere.it/2008/08/italiani-mala-gente.html.
11) Nel sito www.italy.indymedia.org.
12) Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, organizzazione irredentistica che opera in tutta Italia.
13) In “Foibe” edito da Bruno Mondadori nel 2003.
14) Articolo 1 della Legge 92/04.
15) “Priorità/Combined Chiefs of Staff/W.D. Ext. 77500/Secret to Allied Force Headquarters Caserta Italy – British Joint Staff Mission Washington DC (Signed C.R. Peck, Colonel, Infantry U.S. Executive Secretary)/Secret/19 February 1946”. Parte della documentazione è fotocopiata e le fotocopie sono depositate nel Pokrajinski Arhiv Koper (PAK), ae 648.