io so chi ha ucciso calabresi

Io so chi ha ucciso il commissario Luigi Calabresi

Io
so chi ha ucciso il commissario Luigi Calabresi, il 17 maggio 1972,
sotto casa sua, in via Cherubini 6, a Milano, alle nove e un quarto del
mattino.

L’affermazione
è grave, non per le implicazioni giudiziarie, per carità, delle quali
non mi curo minimamente, ma per ben altri motivi, ed è di questi motivi
che voglio mettere a parte i miei attenti lettori.

In
fondo, se riflettiamo un poco, di che cosa possiamo essere sicuri? La
mattina ci svegliamo, mettiamo i piedi fuori dal letto, facciamo
colazione in fretta, voliamo verso la scuola, il lavoro, i più vicini
giardinetti per trovare gli amici, insomma, ognuno verso le proprie
faccende quotidiane. La sera, ritornando a porre le spalle sul
lenzuolo, quasi sempre lo stesso della sera prima, di che possiamo
dirci certi dell’insieme di fatti che abbiamo visto scorrere sotto i
nostri occhi durante l’intera giornata? Non appena puntualizziamo un
avvenimento, per quanto semplice, il caffè che abbiamo preso la mattina
al bar, ecco che tutto il contorno si fa confuso, tende a sfocare nei
suoi dettagli, e ogni aspetto scompare in un desiderio inappagato di
precisione.

In
definitiva, abbiamo una memoria di quello che ci è accaduto, di quello
che abbiamo fatto, ma le nostre affermazioni, riguardo i singoli
avvenimenti, sono tanto inadeguate da farci concludere che non possiamo
dirci certi di niente.

Ma com’è possibile, direbbe qualcuno?

La
risposta è semplice. Noi siamo certi, e sempre dentro limiti a volte
consistenti e gravissimi, solo di quello che veramente ci interessa, di
quello che si è talmente avvicinato ai nostri personali sentimenti,
bisogni, desideri, sogni, progetti, da costituire pugno nello stomaco.
Ricordiamo solo i pugni nello stomaco.

Di per sé, la vita non ci riserva molti pugni nello stomaco, e forse è meglio così.

Pensate
cosa sarebbe una vita continuamente vissuta al limite della tensione
emotiva, fin quasi a scoppiare sopraffatti dall’adrenalina. Un poco di
calma, per carità.

Ma,
poiché non siamo bestie da soma, ma uomini e donne ansiosi di viverla
questa vita, ecco che la guardiamo in maniera selettiva. Filtriamo i
fatti che ci accadono attorno, non solo quelli che vediamo direttamente
con i nostri occhi, ma anche quelli che le grandi protesi moderne dei
giornali e della televisione ci consentono di cogliere, fatti distanti
migliaia di miglia, lontani nello spazio eppure così vicini come se
accadessero nel cortile di casa nostra.

Abbiamo fatto l’abitudine a questi fatti, ma ce ne sono alcuni che si presentano in modo tale da colpirci profondamente.

Che
vuol dire questo essere colpiti, per giunta in profondità? Vuol dire
che restiamo a bocca aperta, mentre una sensazione di dolore, di ansia,
di indignazione, di disgusto, oppure, il che fa lo stesso dal punto di
vista dei meccanismi biologici che si scatenano nel nostro corpo, di
gioia, di entusiasmo, di ebbrezza, ecc.

Questi accadimenti entrano in noi e vi si suggellano nella nostra certezza.

So
bene che non c’è certezza alcuna, se la si considera in termini di
oggettiva certezza valida per tutti, se la si pretende verificare con
il bilancino del farmacista, ma quando il sangue ribolle nelle nostre
vene per i quindici morti straziati dentro la sala centrale della Banca
dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano, passassero cent’anni, ci
sentiremmo lo stesso certi di un fatto indegno, che solo miserabili
servitori dello Stato potevano compiere.

Ecco il genere di certezza di cui voglio parlare.

Tutte
le volte che penso a Pinelli gettato dalla finestra della stanza del
commissario Calabresi nel cortile interno della questura di via
Fatebenefratelli a Milano, il sangue mi ribolle nelle vene.

Quindi
anche di questo sono certo. Mille legulei organizzati insieme per
spiegarmi le ragioni del povero commissario sbalordito dal poderoso
colpo di reni di Pinelli per andare a volteggiare nell’aria notturna di
Milano, non possono convincermi. Non ho nemmeno bisogno di leggere le
testimonianze dei compagni presenti nelle altre stanze che udirono
l’accalorarsi dell’interrogatorio, e le imprecazioni che precedettero e
seguirono l’uccisione di Pinelli. Non aggiungono nulla alla mia
certezza, queste testimonianze.

Allo
stesso modo non tolgono nulla gli scagiona­menti di tribunali, o le
dichiarazioni filiali di giovani uomini cresciuti all’ombra della colpa
paterna, o i ricordi sudaticci di una vedova per la quale non ho mai
provato compassione.

Un
uomo deciso, sicuro di sé, messo in caricatura perfino in un film, ma
padrone della situazione. Era lui la punta di diamante della questura
di Milano nel momento in cui scoppiano le bombe, era lui a darsi da
fare sulla spinta degli avvenimenti, forse più grandi di lui, ma non di
certo capaci di stornargli il cuore verso un moto di correttezza, prima
di tutto verso se stesso. Ma di che correttezza può essere capace uno
sbirro, e per giunta uno sbirro che vuole fare carriera a qualsiasi
costo?

Nessuno
parla più di questa persona in modo concreto, non potendo sembrare un
mito, sembra almeno un fantasma. Gli anni passati hanno annacquato il
personaggio, la morte sembra avere appiattito le caratteristiche in una
iconografia da martire statale.

Il
povero Calabresi, trentaquattro anni, un fiore di gentiluomo, con
moglie incinta e due figlioletti. Un appartamentino al terzo piano del
n. 6 di via Cherubini, una casa modesta. Dopo la morte, la moglie
dovette attendere quasi un anno per avere 156.000 lire al mese di
pensione. Che tristezza.

Ma
il povero Calabresi vedeva la vita sotto un’altra prospettiva. Voleva
essere un vincente, giocava sporco, ed era riuscito a costruire attorno
a sé la fama di duro, di imbattibile. Dappertutto arrivava per primo,
schiacciava tutta la concorrenza, i suoi collaboratori lo odiavano, i
suoi superiori lo temevano. Uomo da karatè e da culto della forza, era
talmente ipocrita con tutti da farsi passare per un sentimentale, per
un cattolico praticante, per un timorato di Dio. In fondo,
quest’insegnamento l’aveva appreso in America, dove era stato a
lavorare con la Cia. Un’esperienza, all’epoca, fatta da pochi super
poliziotti italiani.

In
quei febbrili giorni del dopo strage a Milano tutti avevano paura di
tutti. Il segno del terrore cominciava per la prima volta, seriamente,
a penetrare l’aria provinciale e sempliciotta del nostro paese. Anche
la città industriale per eccellenza, in fondo, non aveva mai vissuto
un’epoca come quella che si accingeva a vivere. E la gente quasi lo
sentiva nella pelle questo tragico discorso nuovo che stava per aprirsi.

Perché
Pinelli? Perché non lo sappiamo, non lo sapremo mai. Poteva toccare a
un altro compagno. La prova di buttare giù qualcuno dalla medesima
finestra dello studio di Calabresi era stata fatta mesi prima con
Braschi, poteva essere lui a cadere rimbalzando sui cornicioni. Gli è
andata bene. Il contesto degli attentati alla Fiera campionaria non era
all’altezza di quello di Piazza Fontana.

Raffazzonare
al meglio la tesi della pista anarchica era compito suo, era lui lo
specialista degli anarchici milanesi, e degli altri che avevano
rapporti con i compagni di Milano. Chi meglio di lui poteva raccogliere
le fila del discorso di già iniziato da Ventura, con la pubblicazione
dei testi anarchici fatta da una casa editrice dichiaratamente fascista
e finanziata dal Ministero?

In
fondo, la scelta degli anarchici era di già in corso da mesi, la prova
generale era stata fatta con le bombe della Fiera campionaria. Molti i
compagni in galera proprio in quel momento. E lì attorno, a girare ben
bene le cose, il povero Calabresi, con il suo vestito stirato di
fresco, il suo atteggiamento educato e duro, la sua cultura (si fa per
dire, ma sempre qualcosa in prestito riusciva a prenderlo qua e là), la
sua velocità nel prendere decisioni.

La
velocità nelle decisioni. Un uomo che aveva lavorato per la Cia non
poteva avere che la velocità degli uomini della Cia, spietati e freddi
nell’esecuzione del loro lavoro. Solo tempi molto più vicini a noi
hanno smontato questi luoghi comuni, facendo vedere come i Servizi
Segreti, dalla Cia al MI5, al famigerato Mossad, altro non sono che
bande di assassini prezzolati e garantiti dell’immunità statale, spesso
anche un branco di incapaci e di sprovveduti, dotati di mezzi che a un
certo punto li fanno più grandi e più forti di quello che veramente
sono.

Ecco,
il commissario Luigi Calabresi era uno di questi assassini prezzolati e
garantiti. Attorno a lui si era creato il mito dell’imbattibilità,
della forza deci­sionista che abbatte tutti gli ostacoli di fronte a sé.

Una
prima incrinatura questo mito l’aveva avuto al processo contro “Lotta
Continua”, dove Calabresi era apparso in difficoltà. Lo si accusava
esattamente di quello che stiamo dicendo qui, di avere ucciso, o almeno
partecipato all’uccisione di Pinelli. I balbettii di risposta sono
ancora nel ricordo di tanti compagni.

Il
17 di maggio fu un giorno infausto per il grande commissario. Tutto
sembrava dovesse andare come sempre, la solita routine della mattina:
la colazione, il saluto alla moglie incinta, i due figlioletti, uno di
due anni e uno di undici mesi, che scenetta familiare.

Anche
il boia ha una famiglia. Non sembra possibile, ma è così. E la famiglia
del boia vede il lavoro del boia come quello di un qualsiasi
funzionario dello Stato, per giunta di un certo livello, richiedendo il
lavoro di boia specializzazioni che non tutti possono assolvere. Dietro
la maschera che nasconde il boia c’è posto anche per la prolifica
moglie e la numerosa figliolanza.

Quell’infausto
giorno, più o meno alle nove di mat­tina, il commissario Luigi
Calabresi scende in strada. Lì lo aspetta il suo destino, esattamente
alle nove e quindici minuti, sotto forma di due pallottole, una prima e
una dopo.

Referto: discontinuazioni craniche, meningo-cerebrali, da proiettile da arma da fuoco (regione occipitale destra).

L’autoambulanza
della Crocebianca di Vialba urla la sua urgenza per le strade della
metropoli. Alle nove e trentasette minuti il commissario Luigi
Calabresi muore all’ospedale S. Carlo.

L’autopsia
sul cadavere di Pinelli fu eseguita dai professori Ludovi, Mangigli e
Falzi. Chi sono costoro? Non lo so. Dei tagliaossa qualsiasi? Non
credo, almeno uno di loro era un uomo dei Servizi, come è apparso in
una nota marginale pubblicata dai giornali anni dopo.

Perché
questa presenza? Perché, ancora una volta non si sentivano sicuri che
tutto fosse stato fatto a dovere (troppa gente nella stanza di
Calabresi?), e volevano chiudere al più presto, massacrando in fretta e
furia quel che restava del nostro compagno.

Una
cosa è certa, che se il lavoro di Calabresi fu un macabro pasticcio
(all’improvviso risultò che Pinelli portava ai piedi tre scarpe),
quello dei notomizzatori fu fatto alla perfezione. Dopo, nessuna
controperizia fu possibile.

Calabresi,
dopo essere uscito dal portone di casa, va verso il salvagente nel
centro della via dove era parcheggiata la Cinquecento della moglie. Ai
due lati una Primula e una Opel. Il primo colpo lo coglie alla spalla
destra, cade, il secondo gli fa saltare parte del cranio. Lo spazio tra
la Cinquecento e l’Opel si riempie a poco a poco di sangue.

La
gente presente non accorre subito, quasi non si è accorta dei colpi
d’arma da fuoco. Nell’aria primaverile sembravano scoppiettii d’una
vecchia auto. Poi qualcuno scorge il corpo bocconi, il sangue che
continua ad allargare la sua chiazza purpurea. Si chiama la polizia, i
carabinieri, l’autoambulanza, insomma tutto quello che accade di solito
in questi casi, accade, come in un vecchio copione abusato. Solo che
stavolta accorrono anche gli alti vertici della polizia milanese. Guida
ha gli occhi pieni di lacrime. Il vecchio custode dei penitenziari
fascisti, sperimentato a tanti misfatti e a tante torture, si commuove
nel vedere il corpo del fido collaboratore a terra, riverso nel proprio
sangue.

Il
funerale del commissario finestra è fastoso, moltissime corone di
fiori. Il cadavere viene portato in chiesa. Il vescovo ausiliare di
Milano celebra il rito funebre: “Fulgido esempio di dedizione al
dovere”. È incredibile come questa gente non abbia il minimo senso di
pudore.

Il
cardinale Colombo, riferendosi ad una dichiarazione della signora Gemma
Calabresi, afferma: “Il fiore più bello sbocciato sul sangue del
commissario ucciso è il perdono della vedova”. Roba da non crederci.

Perdono.
Che parola magica. Bisognerà aspettare degli anni per sentirla ripetere
di nuovo, da altra gente, in altri contesti, ma sempre riguardo la
morte di Calabresi.

Ma, andiamo con ordine.

Di
quella mattinata di maggio qualcuno, dopo tanti anni, sembra ricordare
qualcosa. Che splendido e meraviglioso meccanismo è la memoria. La
memoria dei pentiti, poi, meriterebbe uno studio a parte. In quel di
Massa c’è un tizio che vende crêpe, che ha un chiosco di crêpe, forse
venderà anche cocacola e aranciate, non lo so, comunque ha tutta l’aria
di un onesto bottegaio che tira a campare. E invece sotto il suo
sguardo bonaccione si nasconde un pericoloso criminale.

In
più, questo criminale pericoloso parla, racconta delle storie, narra di
quello che fece la mattina di quel 17 maggio 1972 in via Cherubini,
quando a bordo di una macchina aspettava, aspettava, aspettava.

Ma chi aspettava?

Il nostro amico fa un nome, poi ne fa altri due, indicando in questi ultimi i mandanti dell’uccisione di Calabresi.

Lui era solo l’assistente, l’autista dell’autore materiale del fatto.

Ma
andiamo, mio caro amico pentito, possibile che i carabinieri abbiano
soltanto un disco e che a tutti coloro che accettano per quattro soldi
di indossare la casacca dell’infame facciano recitare sempre la solita
storia?

Ecco,
c’è un fatto che i magistrati non sanno, che lo stesso pentito non sa,
che nessuno sa, ed è il fatto che io so chi ha ucciso il commissario
Luigi Calabresi, il 17 maggio 1972, sotto casa sua, in via Cherubini 6,
a Milano, alle nove e un quarto del mattino. E questo taglia la testa
al toro, definitivamente. Il faccione del pentito sta solo recitando un
pessimo copione.

Ma, non anticipiamo i tempi.

Ad aspettare il commissario in via Cherubini, c’era la vendetta.

Un
assoluto silenzio accolse il 20 dicembre del 1969 all’uscita
dell’obitorio la salma di Pinelli. Erano le 15 e un quarto. Cominciava
a piovere.

Ci indirizzammo verso via Preneste.

La
moglie Licia aveva rilasciato un comunicato: “Desidero vivamente che i
funerali di Pino Pinelli, pur aperti a tutti gli amici che vorranno
prendervi parte, avvengano in forma dichiaratamente privata, senza la
partecipazione di gruppi organizzati, di delegazioni o simboli”.

Non
so perché lei ebbe a fare questa dichiarazione, non certo per i motivi
per cui da solo, nel mio cuore, anch’io ero arrivato alle stesse
conclusioni: simboli, striscioni dei gruppi, forse le stesse bandiere
al vento, sarebbero stati fuori posto.

Una sola bandiera nera avrebbe dovuto essere presente, alla fine risultò che di bandiere ce n’erano più del necessario.

Una corona di fiori portava una piccola scritta: “Gli anarchici tutti non ti dimenticheranno”.

Mi chiesi se non avremmo dimenticato Pinelli, oppure quello che gli era stato fatto. Il dubbio rimase fino al Cimitero Maggiore.

Fossa 434, campo 76.

Qui non ebbi più dubbi. E, insieme a me, i mille compagni presenti non ebbero più dubbi.

Calabresi doveva essere ucciso.

Addio Lugano bella.

La
vendetta è una questione di dignità. L’enormità del fatto non deve
essere commisurata soltanto alla morte di Pinelli, e forse nemmeno alla
stessa strage dei quindici morti e dei novanta feriti. Ciò
costituirebbe una mera algebra giuridica, forse appena appena più
corretta di quella che prevedono i codici. E, in questo senso, non mi
interesserebbe.

La
vendetta è un eccesso, di per sé, non nell’attacco che realizza.
Quindi, vedendo il rapporto nel senso contrario, l’uccisione di
Calabresi, questa non è stata una vendetta commisurata, commisurata ai
morti di Piazza Fontana o alla morte di Pinelli. Anche vedendo le cose
in questo modo si ricade nell’algebra giuridica di prima.

La vendetta è quindi un eccesso.

Non
occhio per occhio, dente per dente, che di già nella formulazione
biblica costituiva una razionaliz­zazione di precedenti comportamenti
vendicativi imprevedibili, quindi un codice vero e proprio, mentre è
parso ai più, erroneamente, una vendetta e basta.

L’eccesso
che si racchiude nella vendetta spazza il campo di qualsiasi rapporto
di equivalenza, di qualsiasi commisurazione. Non è vendetta se non si
trabocca nell’immane, nella cancellazione barbara del nemico, nella sua
eliminazione o, almeno, in un arrecargli un danno di tale portata da
rendergli impossibile l’oblio.

Se
la vendetta fosse commisurata, sarebbe il sistema sociale nel suo
insieme ad impormela, ed eccomi quindi racchiuso in un codice, sia pure
non scritto, ma sempre in un codice. L’ambiente mi obbligherebbe a
vendicarmi, seguendo delle regole, in quanto in caso contrario sarei
guardato male e male considerato se non mi vendicassi o se mi
vendicassi in eccesso, dando origine a ripercussioni dannose per
l’ambiente stesso.

Invece,
se a sollecitarmi alla vendetta è la mia dignità offesa, è solo verso
di essa che io sono responsabile, ed è con essa, quindi con la parte
offesa di me stesso, con la mia coscienza, che devo fare i conti. E con
me stesso non ci sono mezze misure, io costituisco con me stesso una
totalità indissolubile, io sono il mondo, la totalità del mondo, e chi
arreca offesa alla mia dignità cancella il mondo, mi distrugge come
coscienza del mondo attraverso me stesso, e merita di essere tolto dal
mondo.

Certo,
sono pochi a cogliere il senso profondo della propria dignità. È questo
il mistero di certi comportamenti che ci sembrano inspiegabili.
Nietzsche si sente offeso nella propria dignità di uomo di fronte allo
spettacolo di un vetturino che frusta il proprio cavallo e non potendo
resistere davanti al proprio mondo ucciso da quel bruto insensibile,
decide di cancellarlo quel mondo, di cancellare il proprio mondo, di
cancellarsi nella pazzia. Per lo stesso motivo, altri compagni, di
fronte alla propria dignità offesa cancellano il mondo in altro modo,
si cancellano nel suicidio.

Questo
modo di vedere la vita si sviluppa e finisce per diventare essenziale,
man mano che ci si rende conto dell’assurdità delle regole formali che
sanciscono la cosiddetta società, per non parlare delle leggi che
fissano le condizioni di esistenza dello Stato. Leggi e comportamenti
che a lungo andare appaiono non solo strumenti del nemico per
asfissiare e rendere impossibile quel poco di libertà che anche in una
società amministrata e controllata è possibile strappare, ma in se
stessi, come vere storture, comportamenti aberranti anche quando
appaiono intenzionati dalla migliore buona volontà.

La
critica della vita quotidiana produce una coscienza che nel tempo si fa
sempre più acuta e sensibile, sempre più alacre nello scoprire
ulteriori terreni di desolazione e di isolamento. Tutto intorno cadono
così i luoghi comuni del possibilismo democratico, le illusioni della
politica, le positività del movimento storico, le concessioni
istituzionali, l’asetticità di certi riconoscimenti. Si fa terreno
bruciato, ed allora occorre decidersi. Se la propria coscienza è capace
di penetrare dentro la realtà, se scopre la trama che costituisce il
tessuto dei rapporti sociali, quella trama fine e quasi impalpabile che
spesso è coperta dai colori appetitosi dell’offerta con cui si veste la
miseria del dominio, se arriva a fare chiara questa notte senza tempo,
allora si sente offesa, profondamente offesa.

È
l’offesa dei millenni della schiavitù e dell’incarce­razione, dei
millenni di sofferenze e genocidi, dei millenni di sottomissione a
pochi gruppi dominatori. Nulla di quello che è stato il nostro passato
merita di essere salvato, nulla mi è stato dato, e nulla sono riuscito
a strappare al nemico, se non nell’ottica di una sua concorrenziale
concessione diretta a farmi accedere al banchetto, sia pure per qualche
briciola, per qualche riconoscimento di status del tutto marginale, per
qualche striscia sul berretto, per qualche inchino da parte di
imbecilli sornioni che si credono furbi.

E
puoi anche riflettere per anni e anni su questi problemi, leggere e
riflettere, fin quando ti senti stanco e triste, e non c’è nessuna
pagina, nessuna parola, nessun gesto di uomo o di donna a te vicini che
ti dica qualcosa di chiaro, definitivamente chiaro. Puoi remare
nell’oscurità per anni, come i galeotti di un tempo, fino allo stremo,
fino a quando cadi morto sul remo senza che gli altri se ne accorgano.

Invece,
può accadere che un fatto ti illumini per un attimo il fondo della
strada, che un fatto atroce ti faccia vedere in filigrana com’è
veramente il nemico, di che pasta lo hanno messo al forno, da quale
crogiolo infernale è uscita la sua anima. Se un tale avvenimento
accade, se sei là anche tu, insieme a tanti altri come te, che sai che
stanno vivendo la medesima esperienza traumatica, e li vedi, omoni
grossi con le mani callose, ragazzini che cercano di darsi un
atteggiamento, donne mature che corrono col pensiero agli anni della
guerra, ai figli trucidati, fanciulle che vedono il loro amore, che
avvertono come un segno di purezza del mondo, quasi sporcato da tanta
protervia, e li vedi, tutti con le lacrime agli occhi, impotenti ma con
i muscoli tesi, se un tale avvenimento accade con te dentro, non è più
un qualsiasi accadi­mento, un fatto come gli altri (milioni di persone
muoiono uccise barbaramente e vengono condotte al cimitero più o meno
in fretta), ma quel fatto ha una carica diversa, porta con sé una
tensione che non ti permette di avere tregua, ti svegli la notte sudato
e, seduto sul letto, ti chiedi che stai facendo nel tuo letto, e se per
caso non sei tu il morto che si gira nella tomba, mentre ad essere
vivo, ben vivo, è proprio Pinelli, con la sua ingenua barba da operaio
delle ferrovie.

Mi
rendo conto che tutto questo potrà sembrare un elenco di sensazioni
avvertite da un cervello esaltato, da me che, lo devo confessare,
quella sera al Cimitero Maggiore, fossa 434, campo 76, mi sono messo a
piangere senza ritegno. E sia, mettiamola così, si tratta di ricordi
che risentono dello stato emotivo del momento, e spesso questi stati
emotivi esaltati, non potendosi esprimere sull’istante in qualche cosa
di fattivo (prendere a pugni un poliziotto, ad esempio), si traducono
in una frustrazione che fa scoppiare in lacrime. E sia, sono d’accordo.

Ma
così ragionando si perde qualcosa d’importante, riducendo tutto ad una
somma di singole persone che vivono singoli stati d’animo, si mette da
parte la cosa essenziale, quella forza eccezionalmente importante che
viene fuori da molte persone che avvertendo le medesime sensazioni
emotive, sollecitate da sentimenti molto simili (nessuno identico, per
carità, lo so bene), si sentono attratti uno con l’altro a costituire
un insieme omogeneo che non ha bisogno di patti o contratti scritti o
detti per costituirsi. Improvvisamente, questa forza collettiva emerge
ed è là, tangibile, posso toccarla, posso sentire la sua voce, posso
lasciarmi prendere dalle sue suggestioni, indirizzare lo sguardo dove
lei mi dice di guardare, vedere con i suoi occhi fatti di mille pupille
quello che i miei poveri occhi miopi non vedono, ricordare ciò che la
mia povera mente da sola non può ricordare.

Improvvisamente,
come dalla testa di Zeus, di tutto punto armata, esce l’idea di
giustizia. Ma è una ben strana idea, perché non si appoggia a nessun
patto, a nessun ordinamento preferenziale. Non è un’idea che vuole
rimettere le cose al loro posto, scambiare il cadavere di Pinelli con
quello di Calabresi, non sono prodotti fungibili. Non è un’idea che
vuole garantire all’azione rivoluzionaria, genericamente considerata,
una legittimità di continuazione: che fiducia possono avere gli
sfruttati in rivoluzionari che senza reagire si fanno gettare dalla
finestra come una scatola di roba vecchia. No, nemmeno questo. Non è
un’idea che vuole essere conosciuta, fatta propria dalla gente, tanto è
vero che non ci saranno rivendicazioni o chiacchiere politiche da parte
di organizzazioni specifiche di nessun genere, e dire che in quel torno
di tempo strutture nascenti ce n’erano diverse. Non è un’idea che si
alza più alta delle altre per richiamare all’ordine turbato dal
comportamento fuori delle regole, dai misfatti compiuti da un certo
commissario Calabresi, dopo tutto non è certo normale che un fermato in
questura, durante un interrogatorio, venga buttato fuori dalla finestra.

Se
questo mondo si basa sulla giustizia commisu­rata, sui calcoli numerici
di un dare e un avere, di un punire per il torto fatto e di fare un
torto per la pena subita, si tratta di un mondo che non ha niente a che
fare con quell’idea di giustizia venuta fuori collettivamente in quel
momento, quella sera, nel Cimitero Maggiore di Milano. Ecco quindi che
quella sera, senza che nessuno lo volesse o lo sapesse, è venuta fuori
un’idea di giustizia che prima non c’era, un’idea che travalica e rende
risibile il singolo desiderio, la singola fantasia di sparare in bocca
al buon commissario Cala­bresi, desiderio e fantasia coltivati
senz’altro dalla quasi totalità dei presenti, ma come tutti i desideri
e tutte le fantasie, poco dopo, col ritorno alla vita quotidiana,
svaniti nel nulla.

Invece
quest’idea di giustizia (che si potrebbe de­finire “proletaria” se,
come giustamente è stato fatto notare, su questo termine non fosse
piovuta la polvere dei millenni a renderlo inutilizzabile), che non
sapendo come chiamare continueremo a chiamare così, semplicemente,
giustizia, quest’idea di giustizia ha continuato il suo cammino in
tutti noi, ci ha mantenuti tutti insieme uniti, compagni che non mi
sono mai stati vicini, che erano presenti quella sera lì, che poi ho
rivisto poche volte altrove, in tutt’altre faccende affaccendati, loro
ed io, compagni per i quali, diciamolo chiaramente, nutro pochissima
stima, se non proprio avversione e disprezzo, ebbene per il semplice
fatto che anche loro fossero lì quella sera, tutte le volte che la voce
lontana ma vivissima della giustizia mi chiama, mettendomi in subbuglio
il cuore, anche quei compagni torno a sentirli vicini.

Ecco
perché io so chi ha ucciso il commissario Luigi Calabresi, il 17 maggio
1972, sotto casa sua, in via Cherubini 6, a Milano, alle nove e un
quarto del mattino.

Quei
mille, e più, compagni presenti alla fossa 434, campo 76, del Cimitero
Maggiore di Milano, abbiamo tutti premuto il grilletto.

Nessun perdono. Nessuna pietà.

Addio Lugano bella.

Catania, 12 luglio 1998

Alfredo M. Bonanno

[Da Io so chi ha ucciso il commissario Luigi Calabresi, Anarchismo, Trieste 2007]

Questa voce è stata pubblicata in media blitz. Contrassegna il permalink.