Su Joy, sulla libertà e i suoi nemici
Si
può considerare Joy libera grazie all’applicazione di un art. 18? Si
può considerare una persona libera quando è obbligata a collaborare con
la giustizia, denunciando gli sfruttatori e costretta a vivere in una
casa protetta?
Sappiamo tutti e tutte che questa non è la
libertà.
Joy è solo uscita dal cie ed è uscita con un articolo
18, unica soluzione possibile per un nemico che, altrimenti, avrebbe
dovuto riconoscere una sconfitta troppo grande per lui.
Un
nemico che ha classificato come “calunnia” il racconto della violenza
sessuale fatto da Joy in aula, e confermato da Hellen sua compagna di
stanza nel cie di Milano; nemico che si è stretto attorno all’ispettore
capo di polizia Vittorio Addesso, autore della tentata violenza, negando
pubblicamente l’atto con un comunicato stampa, comunicato che aveva
anche lo scopo di giustificare le cariche in Piazza Cadorna a Milano il
25 novembre 2009, giornata internazionale contro la violenza sulla
donna, per aver esposto uno striscione su cui era scritta la verità: nei
cie la polizia stupra.
Un nemico che nei giorni che precedenti
la scarcerazione di Joy, ha cercato di far credere che lei stessa avesse
revocato il suo avvocato, unico canale di contatto e comunicazione con
l’esterno. Revoca mai esistita, mai firmata e quindi, non dimostrabile
al momento della richiesta da parte dei legali.
All’alba del 12
febbraio tre presidi prendevano forma sotto le tre carceri di Brescia,
Como, Mantova, dove erano rinchiuse le cinque ragazze, compagne nella
rivolta di agosto nel cie di Milano, per impedire che finissero nel
l’infernale circuito cie-carcere-cie. Non riuscendo nel tentativo di
isolamento, il nemico, con un ‘operazione congiunta nei tre diversi
luoghi, in piena notte le ha prelevate dalle celle portandole in tre cie
diversi, scegliendo, non a caso, il cie di Modena per Joy: unico a non
permettere all’interno l’uso del cellulare da parte dei reclusi.
A
marzo, con un blitz veloce, e sperando che fosse anche indolore, la
questura tenta la deportazione di Joy e delle altre ragazze in Nigeria.
Operazione non riuscita, grazie all’azione congiunta di solidali e
avvocati, quest’ultimi raggiunti da telefonate con toni “molto accesi”
da parte delle cosiddette stanze alte del potere.
Ma si sa, la
speranza è sempre l’ultima a morire e lo è anche per un nemico che deve
tentare l’ultima mossa, per proteggere uno dei suoi uomini e per mettere
a tacere chi si oppone con la lotta. Forti pressioni vengono fatte a
chi di dovere per impedire che le case protette accettino “il caso Joy”,
e si sa quando si tocca un tasto sensibile come quello del denaro, dei
fondi, dei contributi, è facile che molte, troppe, strutture trovino la
via per rifiutare la protezione alla ragazza. C’è sempre l’eccezione che
conferma la regola.
All’elenco non aggiungiamo i banali
dispetti, le denunce, i pedinamenti, le intimidazioni, le smaccate
connivenze con i media ecc., caratteristiche e mosse che conosciamo bene
e che fanno da arredo e corredo ogni volta che sai di aver imboccato la
strada giusta.
Così si arriva all’8 giugno, data
dell’incidente probatorio: non è più possibile negare l’accusa di
violenza sessuale, ne va preso atto e va esaminata in tutte le sue
sfaccettature; si arriva anche al 10 giugno, giorno in cui la questura
di Modena avrebbe dovuto decidere se convalidare per altri due mesi il
trattenimento di Joy nel cie, e si sarebbe arrivati all’11 giugno,
giornata in cui il giudice di pace di Como, avrebbe dovuto decidere sul
ricorso per l’ultimo procedimento di espulsione di Joy.
Ma la mattina
del 9 giugno qualcosa succede: ormai praticamente con le spalle al
muro, al nemico non rimangono che due soluzioni disponibili: un atto di
forza tentando la deportazione di Joy, condannandola a morte, oppure
un’uscita “legale”, con magari, la successiva possibilità di fare le
dovute pressioni per archiviare il processo per violenza.
In questo
quadro la questura di Brescia, a sorpresa e con dubbio tempismo, nomina
il pm per l’ articolo 18 che riguarda Joy e fa richiesta di permesso di
soggiorno per tale motivo alla questura di Modena. Due giorni dopo, con
le “dovute” attese burocratiche in un assolato pomeriggio di giugno Joy
esce dal cie di Modena.
Mentre Joy passa pochi giorni di libertà
per essere poi condotta in una casa protetta, tutti/e fanno a gara per
annunciare la liberazione di Joy, per accreditarsi all’interno dei
propri ambiti come autori o autrici di tale vittoria di pirro;
l’associazionismo sgomita, qualche figura istituzionale come un
avvoltoio si aggira sulla preda, e qualcun altro si gratifica di vedere
il proprio nome scritto sulle pagine di un quotidiano.
Sappiamo
bene, tutti e tutte, che la storia delle rivolte è spesso, non sempre,
segnata da repressione, sangue e morte. Anche quella dell’agosto 2009 in
Corelli non si discosta da questo: Elabouby è morto in carcere a
gennaio perché non voleva, una volta scarcerato ritornare in un cie,
dove Debby, Priscilla ed Ibrahim hanno fatto ritorno e sono tutt’ora
rinchiuse/i e continuano con forza a lottare, contro anche la concreta
possibilità a breve di una deportazione.
L’uscita di Florence,
Hellen e Joy, con l’articolo 18, assume per noi il significato di aver
riportato "a casa" delle vite, evitando temporaneamente deportazione e
morte certa, questo ci sembra un motivo più che valido per essere felici
e festeggiare.
E’ il percorso che ha portato alla loro uscita, a
costituire per noi una piccola o grande vittoria, perché sappiamo che è
stato imposto con la lotta e senza elemosinare aiuti ad associazioni,
istituzioni e quant’ altro.
Il piano di lotta tentato sulla
vicenda di Joy e nella lotta contro il dispositivo cie in generale, si è
declinato in modo inedito e forte:
Ha creato una rete di
relazioni autonome che sono riuscite, nella lotta contro i cie, ad
andare oltre ad un ambito ristretto allargandosi a livello nazionale ed
internazionale.
Ha messo in luce i nervi scoperti del nemico,
rispondendo a viso aperto senza esclusione di colpi.
E’ andato
oltre il racconto dei fatti, ed attendendo una rivolta collettiva, ha
imposto ad ognuno/a di volta in volta di scegliere da che parte stare.
Si
è esteso ed ha permesso di entrare in relazione con altri teatri di
lotta: dagli operai delle cooperative, agli occupanti di case, ai rom di
triboniano, rompendo gli isolamenti ed insegnandoci ad affrontare
apertamente il nemico, senza cercare vie di fuga.
Un’esperienza
che è stata anche una sintesi di coincidenze e complicità tra solidali,
una sintesi che forse sarà difficile ripetere ma che sicuramente ha
messo in evidenza modalità, contesti e pratiche che nelle lotte contro i
cie, nelle deportazioni e più in generale nella politica statale di
gestione dell’immigrazione hanno molto da dire a chi volesse affinare le
armi.
Joy non è ancora libera. E non lo sarà finché il reato di
clandestinità sarà accettato e degli uomini e donne saranno considerati
come tali. La sua lotta continua, come la nostra.
Alcune compagne di Milano.