Contributi per la stesura di un necrologio del riformismo scolastico (e non)

«Di cosa ci lamentiamo infine quando prendiamo in esame i difetti della nostra formazione scolastica contemporanea? Del fatto che le nostre scuole si basano ancora sul vecchio sapere privo di volontà. Il principio giovane è quello del volere, quale sublimazione del sapere. Quindi, nessun concordato tra la scuola e la vita, ma che la scuola sia vita e che là, come altrove, il suo compito sia quello dell’autorivelazione della persona. La formazione generale dispensata dalla scuola deve essere una formazione per la libertà e non per la sottomissione: essere liberi, è questa la vita vera.»[1]

«Le bocche si aprono in grida stizzose di protesta, gli occhi attingono nella sfida il bagliore di entusiasmo che è loro rifiutato. Così i movimenti di contestazione periodicamente risvegliati dalle direttive di istanze burocratiche e governative scadono – per assenza di creatività – nello stesso grigiore e nella stessa stupidità del potere inconsistente che li ha provocati. Che ci si può aspettare da manifestazioni gregarie in cui l’intelligenza degli individui, in mancanza di un progetto di cambiamento radicale, si riduce, secondo il comune denominatore delle folle, al più basso livello di comprensione?»[2]


Risuonano ancora in queste ore gli echi della protesta del mondo scolastico e universitario italiano e inglese. Per le strade migliaia di giovani, e non solo, reclamano diritti e garanzie riguardanti il proprio futuro. I temi caldi sono l’istruzione pubblica, l’abbassamento delle tasse universitarie, il caro-libri e la richiesta di fondi maggiori per finanziare l’enorme mostro didattico-burocratico della cultura accademica. Incuranti del rischio di passare per perenni scontenti, nichilisti e provocatori d’ogni sorta, crediamo che questa massa non faccia altro che vedere migliaia di dita protese verso il cielo, magari alzate per invocare la clemenza delle forze dell’ordine, e, crogiolandosi di questa mirabile vista, dimentica totalmente la possibilità che in cielo via sia la Luna, che vi sia cioè la possibilità di scegliere un’alternativa radicale all’esistente. Analizzando la genealogia dello stato, e delle sue istituzioni satellite, abbiamo capito senza troppe difficoltà che l’apparente invincibile Leviatano non va né accudito né tanto meno riverito col più triste dei servilismi. Esso va abbattuto, una volta per tutte, e di lui deve rimanerne solo un monito, quello che ci ricorda cosa significa, nella pratica di tutti i giorni, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Si reclama dunque una controriforma, autogestita e proveniente dal basso, senza avere il coraggio di compiere quel balzo in avanti per mettere sotto la lente della critica l’intera istituzione scolastico-universitaria. Solo così risulterebbe chiaro che la scuola, tanto quanto il lavoro e il carcere, è uno dei pilastri portanti del controllo quotidiano delle nostre vite, anzi essa appare ancora più pericolosa in quanto ha la facoltà di operare già nei primi anni di vita dei giovani, avvolgendo questi nella sua morsa per altri decenni a seguire.

La scuola rappresenta infatti la prima tappa del triste percorso finalizzato all’incameramento di concetti quali la gerarchia, l’alienazione e la soppressione dei propri istinti, incameramento che non è più fortemente autoritario ma subdolo, capace di trasmettere un’idea benevola di gerarchia, come fosse la soluzione ad ogni problema sociale.
La scuola viene rappresentata come la via obbligata per maturare indipendenza, soprattutto intellettuale, e meritare così le chiavi del proprio futuro. Siamo dunque a favore dell’ignoranza? Diciamo meglio, siamo per la chiusura di uno dei grandi serbatoi umani dal quale il Capitale risucchia quotidianamente carne umana, utilizzandola nei modi che più gli tornano proficui.
In questo modo la scuola si configura come un vero e proprio laboratorio, un nefasto gioco di ruolo, all’interno del quale sperimentare, già da ragazzi, le dinamiche gerarchiche che poi saranno predominanti all’interno di altri contesti come il lavoro. A tal proposito scrive Raoul Vaneigem : «Ecco quattro muri. Lì il consenso generale decide che, con ipocriti riguardi, vi saremo imprigionati, costretti, colpevolizzasti, giudicati, onorati, puniti, umiliati, etichettati, manipolati, vezzeggiati, violentati, consolati, trattati come aborti che questuano aiuto e assistenza. Di che cosa vi lamentate? Obbietteranno gli autori di leggi e decreti. Non è forse il modo migliore di iniziare i novellini alle regole immutabili che reggono il mondo e l’esistenza? Senza dubbio. Ma perché i giovani dovrebbero ancora accontentarsi di una società senza gioia e senza avvenire, che gli stessi adulti sopportano ormai rassegnati, con un’acrimonia e un malessere crescenti?»[3]Adesso rispondiamo alla domanda posta poco sopra, siamo forse per l’ignoranza? Stavolta rispondiamo che è la stessa istituzione scolastica a farsi portavoce dell’ignoranza più becera, tempestando gli studenti di nozioni e propugnando una cultura che è schiava del rapporto tempo-studio, reificato nel mostruoso concetto di credito formativo, ennesima aberrazione del mondo accademico. In una macabra dialettica con la classe docente, l’alunno deve restituire, preferibilmente senza appoggio critico, tutto il bagaglio ideologico imparato al fine di guadagnare “l’uscita di prigione”, evitando così la bocciatura. Che gioia, la scuola e il tribunale si vengono affettuosamente incontro! Esami e interrogazioni vengono fatti passare come sincero interesse per la valutazione della cultura dell’alunno quando invece sono un mero strumento di demarcazione tra promossi e bocciati. Diffidiamo anche della scuola dai connotati democratici[4], dove gli studenti sono invitati a sentirsi parte di un decidere collettivo, di una didattica apparentemente vicina a loro solo sulla carta. Anche gli studenti, così come tutti i prigionieri, dovrebbero stancarsi di riessere rieducati e dovrebbero una buona volta aver voglia di rieducare i propri rieducatori, citando liberamente una famosa strofa di una canzone punk hardcore. Neghiamo con forza la connotazione positiva di un sapere impartito da un docente, il quale viene a buon diritto definito da Vaneigem come «colui che porta nel suo cuore il cadavere della propria infanzia e che non educherà mai nient’altro che delle anime morte»[5]. Non va infatti dimenticato il ruolo del docente, o del professore accademico, il quale volontariamente relega in un angolo buio la propria creatività e i propri desideri, sottostando a normative ministeriale e a dinamiche didattiche preimpostate. A questo punto non possiamo che prendere le distanze dalla schizofrenia di chi si sgola nel proclamare la lotta contro la mercificazione del sapere, difendendo poi un’istituzione, come quella scolastica, che proprio sulla mercificazione della conoscenza, in quanto tentacolo del sistema capitalista, ha gettato le proprie basi. E’ stata la stessa Commissione Europea che, nel 1991, ha stabilito un riassetto dell’università in chiave economica, considerandola alla stregua di un’impresa come tante altre che si affacciano sul mercato. Così gli studenti si trasformano in clienti e perciò risulta possibile aggiungere un’altra tessera allo squallido mosaico mercantile che detta i tempi del quotidiano. Due anni dopo, questa stessa Commissione considera gli alunni della scuola materna come potenziali risorse umane per il settore industriale, ovvero futuri automi aventi il ruolo di esperti dispensatori di merce superflua, preziosissima per la sopravvivenza del Capitale.
«Dopo aver strappato lo scolaro alle sue pulsioni di vita, il sistema educativo si industria per ingozzarlo artificialmente allo scopo di immetterlo sul mercato del lavoro, dove continuerà a ripetere stentatamente il leitmotiv dei suoi anni giovanili fino al disgusto: che vinca il migliore! Vincere che cosa? Più intelligenza sensibile, più affetto, più serenità, più lucidità su se stesso e sul mondo, maggiori mezzi di agire sulla propria esistenza, più creatività? Niente affatto, più denaro e più potere, in un universo che ha usato il denaro e il potere a forza di essere usato da loro»[6].

Rifiutiamo di definire sapere il frutto dell’alienazione di nuove categorie di schiavi, come i docenti a contratto, collaboratori, ricercatori assegnisti e tutte le figure lavorative del mondo accademico generate dall’imperante precarietà economica. Invece di reclamare catene e manette di un materiale più leggero o di definire una retribuzione più cospicua della propria alienazione quotidiana, non dovremmo forse farci interpreti di una critica globale dell’istituzione scolastica, tassello imprescindibile dell’odierno sistema di produzione/sfruttamento?
Ripudiamo lo stupore e il dissenso borghese e benpensante di chi contribuisce alla spettacolarizzazione della protesta, montando interminabili servizi televisivi e giornalistici su atti vandalici nelle scuole o occupazioni di plessi universitari. Altresì comprendiamo benissimo l’istinto distruttore di chi, fin da giovanissimo, si sente a sua volta distrutto quotidianamente a causa delle dinamiche pedagogico-scolastiche. «Noi non vogliamo più una scuola in cui si impara a sopravvivere disimparando a vivere. La maggior parte degli uomini non sono stati altro che animali spiritualizzati, capace di promuovere una tecnologia al servizio dei loro interessi predatori ma incapaci di affinare umanamente la vita e raggiungere così la proprio specificità di uomo, di donna, di fanciullo. Al termine di una corsa frenetica verso il profitto, i topo in tuta e in giacca e cravatta scoprono che non resta più che una misera porzione del formaggio terrestre che hanno rosicchiato da ogni lato. Dovranno progredire nel deperimento, o operare una mutazione che li renderà umani»[7].

Qual è dunque la prassi che più riteniamo opportuna? Quale se non quella di diffondere, come orgogliosi untori, il germe dell’insubordinazione e del rifiuto verso l’esistente, contestando il ribellismo riformista facilmente riassorbibile dagli apparati politici, grazie anche al prezioso supporto dei mass-media tanto cercati da partiti e sindacati studenteschi, alla testa dell’istituzione statale. Su questo sia Stirner che Vaneigem concordano, c’è bisogno di riappropriarsi delle proprie vite ed imparare a mettere queste in cima alle nostre priorità, con tutti i bisogni e le necessità che ci sentiamo vicini. E’ implicito che non si può mettere in discussione l’istituzione scolastica senza fare altrettanto con il suo naturale sbocco, ovvero la schiavitù del lavoro. Ovverosia il premio che tocca ad ogni studente che, in maniera diligente, ha completato il proprio percorso di studi, conquistando poi uno status più o meno elevato nella piramide economica. Ci dissociamo da una continua gara di sopraffazione per accaparrarsi le briciole di un esistente sterile e disgustoso, se ci deve essere una selezione naturale e una competività selvaggia, preferiamo che soccombano arrivisti e prepotenti che affollano i vertici aziendali e i seggi parlamentari. Ci sentiamo affini alle intenzioni dei giovani milanesi che propongono il sabotaggio della loro metropoli, acuti nel considerare la protesta universitaria solo come una scintilla di un fuoco ben più grande, così condividiamo in pieno l’analisi dei compagni genovesi. Ecco dunque la modalità di intervento che più ci sembra adatta per dare il nostro contributo nelle lotte reali che si avvicendano nel nostro quotidiano, sicuramente non quella di fomentare personalismi o di farci fautori di rovesciamenti di questo o quel partito politico dominante.

«La funzione della minoranza anarchica rivoluzionaria dovrebbe essere pertanto quella di trasformare le rivolte spontanee in azioni insurrezionali coscienti. Le prime, motivate da un senso vago e generico di insoddisfazione, di inutilità, di insofferenza, stanno scoppiando e continueranno a scoppiare. Le seconde sono un elemento fondamentale del futuro progetto rivoluzionario»[8].


[1] Max Stirner, Il falso principio della nostra educazione

[2] Raoul Vaneigem, Avviso agli studenti, Nautilus, 1996, p. 13

[3] Ibi, p. 4

[4] Cfr. “Il mondo della scuola” da Esclusi ed inclusi (1985) di A.M. Bonanno

[5] Raoul Vaneigem, Avviso agli studenti, p. 20

[6] Ibi, p. 16

[7] Ibi, p. 8

[8] Alfredo M. Bonanno, Tesi di Cosenza. Il problema dell’occupazione. Per una critica della prospettiva anarco-sindacalista, in “Anarchismo”, marzo 1987, n. 56, pp. 85-88

tratto da cenere

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